La mappa dell'imprenditoria immigrata in Italia

È sempre più strutturale, vitale e pesante il contributo degli imprenditori migranti all’economia italiana, ma le sue peculiarità si portano dietro anche debolezze sulle quali bisogna intervenire. Questa l’immagine in chiaroscuro restituita da La mappa dell'imprenditoria immigrata in Italia. Dall'integrazione economica alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, progetto realizzato dal Censis e dall'Università degli Studi Roma Tre con il supporto finanziario dell'Inail, i cui risultati sono stati presentati il 3 giugno a Roma. 

Nel 2018 Infocamere ha censito 447.422 titolari d’impresa nati all’estero (l’81% in Paesi extra Ue) , che rappresentano il 14,6% dei titolari d’impresa in Italia. Dal 2010 al 2018 sono cresciuti del 31,7% (gli extra Ue del 37,8%), a fronte di un calo del 12,2% registrato tra i nati in Italia. Importante la componente femminile, che rappresenta il 23,1% del totale e in quegli stessi anni ha fatto segnare una crescita del 40,4%. Sono, inoltre, imprenditori giovani: il 71,6% under 50, contro il 44,3% degli italiani.

La propensione all’imprenditoria appare più sviluppata in alcune comunità, con oltre il 40% dei titolari stranieri che arriva da soli 4 Paesi. I più numerosi sono i marocchini (64.690 imprenditori, il14,5% del totale), seguiti dai cinesi (50.899, l’11,4%), dai romeni (47.964, il 10,7%) e dagli albanesi (31.425, il 7,0%), ma negli ultimi anni sono indiani, pachistani e bangladesi ad aver fatto registrare i tassi di crescita più alti.  Nella distribuzione per settori di attività, sono preponderanti i servizi (63,1%) e l’industria (33,6%), rispetto ad agricoltura, silvicultura e pesca (3,3%). In particolare, sono 146.905 i titolari stranieri di esercizi per la vendita al dettaglio, 25.901 quelli attivi nella ristorazione. Nell'industria al primo posto si trovano i 114.322 stranieri titolari di un'impresa di costruzioni. La mappatura conferma anche alcune “specializzazioni etniche”, con i marocchini, i bangladesi e i senegalesi, per esempio, attivi soprattutto nel commercio, i cinesi nel commercio, nel tessile e nella ristorazione, e i romeni e gli albanesi nei lavori edili.

Riguardo alla distribuzione sul territorio, Lombardia (81.355), Lazio (53.829) e Toscana (43.832) guidano la classifica delle Regioni per numeri assoluti di imprenditori nati all’estero, Roma (45.511), Milano (36.489) e Torino (20.692) quella delle province. Se si considera, però, l’incidenza sul totale degli imprenditori, al primo posto tra le Regioni c’è la Toscana (21,4%), tra le province Prato (46,9%). 


Dalle interviste realizzate da Censis e Roma Tre, emerge la stabilità dei titolari (l’80% è in Italia da almeno 10 anni; il 69% ha l’intera famiglia qui; il 67% vede qui il proprio futuro, il 39% ha la cittadinanza italiana), alla quale fa, però, da contraltare una scarsa integrazione (il 12% dice di parlare italiano approssimativo e il 24% solo sufficiente, il 45% nel tempo libero frequenta solo stranieri). Con una dicotomia simile, le imprese risultano solide (il 72% ha personale dipendente; il 60% è attiva da oltre 4 anni; negli ultimi 3 anni il 53% ha avuto fatturato stabile, il 20% in crescita; il 77% soddisfatto del tutto o in parte della sua attività), ma hanno anche dimensioni piccole o piccolissime (in media 3,7 dipendenti)  e operano per la stragrande maggioranza solo in un mercato locale (81%). 

L’estrema flessibilità e capacità di adattamento dei migranti che fanno impresa, sottolinea il rapporto, “si riflettono nella propensione ad andare ad occupare gli spazi lasciati liberi dai nativi, ma anche nella capacità di garantire estrema flessibilità negli orari di lavoro, disponibilità agli spostamenti, varietà dei prodotti offerti, costi contenuti, ibridazione tra italiano e straniero”. I limiti delle loro imprese? “Sono attive in settori poco qualificati, a basso valore aggiunto, con scarso contenuto tecnologico, per cui fanno più fatica a mantenersi sul mercato”.  

L’indagine evidenzia, poi, che gli imprenditori migranti hanno una scarsa percezione del rischio di infortuni e una cultura molto carente su salute e sicurezza sul lavoro. Per il 52% le norme sono semplicemente un “obbligo”, solo per il 18% contribuiscono a innalzare livello di salute e sicurezza, mentre il 30% dice che ha difficoltà ad adempiere agli obblighi di legge e il 47% li delega del tutto o in parte a commercialisti e consulente del lavoro. Meno del 30% chiede aggiornamento o formazione in materia. Il 22% non conosce l’Inail, solo il 32% ne conosce gli incentivi per migliorare salute e sicurezza.

“È essenziale – concludono i ricercatori - accrescere tra gli imprenditori di origine immigrata la cultura della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro”. Come fare?  Il progetto indica quattro direttrici d’azione: promuovere sinergia tra le istituzioni locali e le realtà territoriali; adottare un approccio multiculturale; far emergere la relazione diretta tra salute e sicurezza sul lavoro e risultato di impresa; controllare e sanzionare criticità e irregolarità, ma anche premiare le imprese che realizzano buone pratiche.

 

In allegato Il testo integrale de “La mappa dell’imprenditoria immigrata in Italia”, la Brochure in italiano, la Brochure in inglese e la Brochure in cinese.

(Fonte: integrazione.migranti.gov.it)